Dopo aver contribuito a sfamare gente per secoli, nella seconda metà del ’900 la pastorizia familiare è scomparsa come d’altronde la transumanza.
Già i Romani svilupparono l’industria dell’allevamento, istituendo anche il censimento degli armenti e invocando su questi la protezione degli dei: Pale è la dea dei pascoli, Fauno il dio protettore delle pecore, come in epoca cristiana sarà S. Pasquale il protettore di pecore e pecorai e S. Martino il protettore delle capre.
La pecora compare, come anche il bue, su monete dell’epoca dei sette re di Roma e da pecus/pecora unità di valore per le merci, vengono le parole “pecunia” a significare moneta.
Quando i proprietari di pecore e altro bestiame diventano nel periodo imperiale ricchi e latifondisti, diventano anche una classe che dalla “campagna romana” estende presto il suo potere a tutta la Maremma, perpetuandosi nei secoli praticamente fino al XX e raggiungendo il culmine della potenza economico – politica nei secoli XV – XVI, quando la coincidenza d’interessi con il sempre più forte Stato Pontificio, produce tra questo ed i grandi allevatori quel rapporto di mutua assistenza che rafforza ulteriormente entrambi. Bonifacio IX nel 1402 istituì la Dogana pecudum, ovvero il libero passaggio delle greggi nelle strade dello Stato Pontificio e loro libero pascolo per 20 canne (m. 44) su entrambi lati delle strade doganali, sotto la protezione di gendarmi pontifici. In cambio i proprietari di pecore pagano allo Stato Pontificio una tassa, sopravvissuta fino al 1828. La tassa citata è una specie di gallina dalle uova d’oro, perché nelle casse papali entra più denaro di quello che entra dall’esportazione di grano di tutto il territorio.
Con il peggioramento delle condizioni agricole nel ’500 la pastorizia cresce ancora d’importanza, con forte sviluppo delle greggi e con una notevole presenza delle pecore in montagna.
Gli affari sono prosperi per gli allevatori anche nel ’600; nel 1647 un bando pontificio concede a pecore e pecorai di sostare per tre giorni in qualsiasi territorio attraversato (ridotti a due in epoca post–napoleonica), senza pagare pedaggio o gabelle di sorta, ma naturalmente continuando a pagare allo Stato la Dogana pecudum.
Alla fine del ‘700 ci sono nel Lazio 2.000.000 di pecore, l’estivaggio delle quali avviene sui pascoli dell’Appennino umbro–marchigiano, dal gruppo del Catria ai Sibillini.
Proprio in quegli anni al Cardinale Adani (papato di Benedetto XV) vennero regalati degli arieti Merino Rambouillet (selezione francese della Merinos) che il Cardinale Lante della Rovere, amministratore dei beni rustici papalini, mandò a monticare sull’Appennino marchigiano nelle zone di Visso, Ussita, Castel S. Angelo (Monte Bove), dove era allevata l’Appenninica detta in loco Vissana, popolazione tenuta in grande considerazione dai papi soprattutto per il rifornimento di carne alla città di Roma. Gli incroci attuati tra arieti Merinos Rambouillet e pecore vissane dettero origine alla Sopravissana. Tale incrocio fu particolarmente seguito dal Pontefice Pio VI il quale, con una legge di stato, proibì la macellazione degli agnelli di qualsiasi sesso ordinando che il numero eccedente servisse per la diffusione del sangue “Merinos” negli ovini Vissani transumanti in tutto lo Stato Pontificio.
Gli incroci, che dettero origine alla pecora Sopravissana, si conclusero attorno agli anni 1820-30 per opera di Piscini e Rosi. Il primo standard di razza è stato approvato con D.M. del 12 Giugno 1942.
La Sopravissana è una razza considerata a triplice attitudine: lana, carne e latte, non abbondante ma di grande resa, da cui si ricava il “pecorino romano”. Rustica, forgiata nei difficili ambienti montani, gioca un ruolo fondamentale nel modellare e conservare il paesaggio tipico dell’Appennino. Le pecore brucano usando le labbra e quindi tagliano il cotico erboso in modo assai omogeneo; inoltre, pascolando molto vicine l’una all’altra, utilizzano il pascolo in maniera completa e uniforme. Negli ultimi anni, durante i quali la Sopravissana è stata sostituita da razze più specializzate, i pastori si sono confrontati con molti problemi causati dal difficile adattamento di queste nuove razze all’ambiente montano e ciò ha portato all’abbandono della transumanza e alla diffusione di sistemi di allevamento stanziali.
I pascoli montani, abbandonati e utilizzati da specie diverse da quella ovina, hanno cambiato la loro composizione botanica e, di conseguenza, il paesaggio è diventato diverso e meno attrattivo; solo le razze originarie sarebbero capaci di restaurare le antiche condizioni ambientali.
Una decina di anni fa alcuni allevatori hanno deciso di recuperare la razza, intraprendendo un iter di ricerca genetica lungo, complesso, faticoso e costoso. Oggi la Sopravissana è una realtà concreta, una tipicità del nostro territorio ma sarebbe auspicabile una collaborazione ancora più forte tra operatori agricoli e istituzioni per la salvaguardia di questa importante biodiversità, sfruttando le opportunità che offre l’Unione Europea con l’erogazione di fondi strutturali.
Fonti:
C’era una volta la transumanza (Luigi Galassi)
REGISTRO REGIONALE DELLE RISORSE GENETICHE AUTOCTONE
Sopravissana di Visso, la pecora del futuro dei Sibillini (Luca Craia)