Il rifugio Tito Zilioli è una piccola costruzione in muratura, edificata in località Sella delle Ciaule sul monte Vettore, a 2.250 metri. Frequentatissimo in estate, è raggiungibile da Forca di Presta percorrendo il sentiero n° 101 camminando per circa un’ora e 45 minuti. Il sentiero è vietato alle MTB per le recenti disposizioni del Parco Nazionale dei Monti Sibillini.È stato costruito nel 1960 dalla sezione di Ascoli Piceno del Club Alpino Italiano e dedicato a Tito Zilioli per ricordarne la sua scomparsa. Il rifugio fu ampliato nel 1981 e restaurato tra il 2004 e 2005.

Tito Zilioli era un alpinista ascolano che il 30 marzo 1958 effettuò la ripetizione invernale della via del Canalino, sulla parete sud-est del Monte Vettore, insieme a Pinetta Teodori, Claudio Perini e Francesco Saladini. Nel corso della discesa, in prossimità dello stazzo Petrucci (luogo dove fu posta la croce), Zilioli fu colto da collasso cardiaco e morì. Aveva solo 24 anni. Solo successivamente i compagni seppero che il medico gli aveva proibito l’attività agonistica (gareggiava nei 400 metri) per problemi al cuore. Gli mancava un esame per laurearsi in giurisprudenza a Macerata.

Questo è il drammatico racconto di Francesco Saladini pubblicato sulle pagine dell’Appennino (rivista della sezione romana del CAI):

“Quando ci troviamo tutti e quattro riuniti per la partenza è ancora notte fonda. Sono appena le tre antimeridiane: orario da ascensione seria. E per noi è molto importante, questa direttissima, una di quelle salite che si mettono in preventivo molto prima, con la quale si può chiudere degnamente una stagione invernale. La piccola macchina ronza sull’asfalto, tuffandosi di tanto in tanto nella bassa nebbia di valle. Parliamo delle cose di ogni giorno col pensiero lassù, alla montagna; le piccozze tintinnano allegramente, sembrano scandire il ritmo della nostra impazienza. Passano case, paesi addormentati sotto una indistruttibile quiete; ai margini del bosco la neve ci arresta, scendiamo: il Vettore ci mostra le sue altezze senza stelle: d’ora in avanti solo il nostro breve coraggio contro la sua immobilità silenziosa. Tito solleva il volto deciso e sereno verso la parete: “Si farà”, dice semplicemente. Sono le cinque. Sul dosso che si inerpica verso la fascia rocciosa il cerchio bianco della torcia elettrica ballonzola tra i giovani abeti del rimboschimento. Vicino, un torrente precipita a valle con fragore continuo; nessuna ha più voglia di parlare, questi momenti sono presi da pensieri ondeggianti, da ricordi, da immagini; per oggetto, la via da affrontare. E’ chiaro che non sarà facile, oggi; tuttavia sarà nostra. Anche ora, come sempre, è soprattutto la coscienza della presenza di Tito, forte e silenziosa, che non lascia alcun dubbio sulla buona riuscita dell’impresa. Lo ha detto lui, la faremo.

La torcia elettrica non serve già più. E’ giorno, con la luce tutto ritorna alle proporzioni di una realtà chiara ed immutabile. Si individuano i canali, i passaggi, si percorre la via più volte con gli occhi e con la mente. La direttissima è qui davanti a noi, ripida e bianca: la notte non l’ha cancellata per sempre. Nel canale che porta quasi fino all’inizio del colatoio tiriamo fuori le corde, ci leghiamo. L’operazione, benché usuale, restituisce anche adesso, come sempre, ai gesti la solennità di un rito denso di significato: ora le nostre azioni entrano in una dimensione sconosciuta alla vita di tutti i giorni. D’0ra in avanti non ci saranno persone e volontà distinte ma la cordata che le somma e le coordina tutte per ogni attimo della salita; poiché ognuno è indispensabile, ognuno è parte di quel meccanismo che ha bisogno di funzionare in ogni suo elemento per arrivare in cima.

Sotto il primo fronte di roccia ci fermiamo; la neve a ridosso della parete ha formato una profonda trincea nella quale è possibile riunirsi. Parte Tito per la prima tirata affondando e facendosi largo a colpi di piccozza. E’ felice: mentre ‘sfanga’ come uno spazzaneve ride rivolgendoci parole scherzose, poi scompare dietro le rocce, su per il camino ingombro di neve. Da qui, la salita non ci darà respiro. Va su Claudio per la seconda tirata, poi Francesco seguito da Pinetta, che sale senza il minimo impaccio. Comincia a nevicare lentamente, la montagna prende a difendersi. Un sibilo insidioso: alla nostra sinistra una slavina va giù velocemente per il colatoio appena percorso. Poco dopo ne cade un’altra, rombando a cascata per un salto verticale di roccia e perdendosi laggiù, verso valle; anche il vento comincia a levarsi, raffiche ci sferzano da ogni parte avvolgendoci in turbini di neve”.

Nell’imbuto sopra il camino le due cordate si riuniscono, piegano a destra per raggiungere una crestina; Tito, davanti, resta fermo a lungo, senza motivo apparente, a metà di un canale, nella neve fino alle anche; fa freddissimo, è pericoloso aspettare ancora, Francesco lo raggiunge, gli chiede, viene rassicurato, lo supera, Tito quasi subito lo segue: è forse l’avvio della tragedia, ma come saperlo? “Ogni tirata di corda un’ora; ma ormai non piegheremo. Dopo l’ultima, di Tito, una linea indistinta, forse solo un’idea: è la cresta ! Gridiamo il nostro hurrà più forte della tormenta, ci congratuliamo a vicenda, ridendo.

Non è ancora finita: sul crinale, la violenza del vento aumenta, diventa inaudita: le corde gelate che ci uniscono sembrano animarsi, rabbrividire sotto il soffio della bufera. La visibilità è nulla, gli abiti non sono altro che rigide acconciature di cartapesta incrostate di ghiaccio. Pare che la montagna non voglia rassegnarsi; d’un tratto un vento impossibile ci ferma, ci inginocchia; Francesco si volta per prendere fiato, scorge un palmo quadrato di metallo rosso incastrato nella neve, urla, ci raggruppiamo tutti. Sono le diciassette, siamo in vetta.

Dall’inizio della salita sono trascorse dodici ore. La sosta è di pochi secondi. Ci precipitiamo verso la sella, la tormenta diminuisce un po’, raggiungiamo in fretta la terrazza che sovrasta la fonte, tagliamo a destra verso Vettoretto. La visibilità, prima migliorata, diminuisce di nuovo: Tito, da ultimo, rallenta un pò la discesa. A Claudio, che gli chiede se stia male, dice di no, di avere fame. Ci fermiamo, ci raggruppiamo per aprire i sacchi, risponde con qualche difficoltà alle nostre domande asserendo di avere le labbra gonfie per il freddo. Riprendiamo il cammino, prima in piano poi in discesa, senza avere la certezza di stare sulla strada giusta. Infatti, ad una schiarita, vediamo molto sotto di noi il Pian Piccolo. Bisognerà tagliare a sinistra per raggiungere lo stazzo Petrucci. Tito mostra maggiori difficoltà nel camminare; Claudio, che gli è più vicino, lo incita, lo aspetta, infine lo aiuta tirando la corda. Pensiamo ancora che sia stanco.

Alle diciannove, centocinquanta metri di pendio da traversare in diagonale ci separano dallo stazzo. Tito è sempre più spesso fermo, non risponde agli incitamenti, i suoi occhi hanno una fissità strana. Claudio e Francesco lo raggiungono insieme più volte, lo aiutano sostenendolo, cercando di tirarlo. Ma egli chiede che non lo si tiri: “Lasciatemi”, dice, oppure “Che fate? Perché state qui?”. Evidentemente le sue possibilità di intendere e reagire sono molto alterate. Bisogna prenderlo per le braccia, portarlo; data la stanchezza questo è possibile solo per brevi tratti; Francesco gli ha tolto la piccozza, piantandola nella neve: rimarrà lassù. La notte sta scendendo; alle diciannove e trenta siamo a cinquanta metri dallo stazzo, occorre sbrigarsi; se Tito sta male l’unica possibilità di soccorso è a valle.

Adesso, a lasciarlo si abbatte sulla neve, senza conoscenza; Pinetta lo guarda, lo ascolta respirare; è sconvolta e dice con voce rotta che sta per morire. ” E’ lei, con la sua recente laurea in medicina, a rendersene conto per prima: unica donna del gruppo, ha solo qualche esperienza di escursionismo, certo non di ascensioni invernali: ma s’è comportata benissimo sin qui e ora regge la parte che la tragedia le assegna. “Lo trasciniamo ancora; infine siamo allo stazzo, a quota 2053 di Prato Pulito; qui si può adagiarlo sulla neve; il respiro è affannoso, intermittente, gli occhi non vedono più; intorno è buio, neve, freddo. Ci facciamo intorno a lui cercando di massaggiarlo, di scaldarlo in qualche modo. Francesco chiede a Pinetta di sentirlo ancora; si china: “Non respira”, dice. Ne ascolta il cuore, il polso.

Si rialza. E’ finito. Sono circa le venti del 30 marzo 1958. ” I compagni gli legano una corda intorno ai piedi, lo trascinano così, nel buio della notte, sino alla base del canale, lo lasciano dove la neve termina, a 1400 metri circa; portarne il corpo a spalla è impensabile. “Gli poniamo il suo sacco sotto la testa. Non c’è altro da fare. Scendiamo a Pretare, alle 22,30 siamo in paese. L’ascensione è terminata. Per Tito si concluderà l’indomani mattina, quando sette uomini della valle ed un Carabiniere lo porteranno steso su una barella di frasche nella chiesa del cimitero e sarà per tutti, e soltanto, un uomo di montagna, caduto in montagna”.

Fonte: “Monti Sibillini – Racconti di salite dal 1420 al 1935” – Alberico Alesi – S.E.R. editore

Foto: M. Calibani / sibillini-mtb